giovedì 13 gennaio 2011

Due euro

 


Per anni ho pensato che contribuire a finanziare una giusta causa non fosse compito mio, ma dello Stato, o, al limite, della Chiesa. Tutte le campagne di tipo sociale o umanitario promosse da tal ente o tal altra associazione mi hanno lasciato sempre piuttosto indifferente, anzi talvolta mi hanno persino infastidito.

Per rafforzare e avvalorare il mio atteggiamento, il mio chiamarmi fuori, non solo invocavo la “competenza” di altri (lo Stato appunto, o la Chiesa) che tali finalità le hanno come proprio compito istituzionale, ma aggiungevo il sospetto (non saprei dire quanto giustificato) che i miei soldi (pochi o tanti che fossero) potessero finire in mani disoneste, non arrivare per qualche motivo a destinazione. Perché prestarsi a possibili speculazioni, mi dicevo, perché alimentare circuiti sconosciuti che non mi danno adeguate garanzie?

Poi tempo fa è capitata una cosa che non mi aspettavo. Ero entrato in un negozio di alimentari che sta a pochi passi da casa per comprare due o tre cose per le quali non valeva la pena prendere la macchina ed andare al supermercato. Alla cassa, davanti a me, c’era un’anziana signora che si stava facendo fare il conto. Quando la signora ebbe in mano lo scontrino, restò perplessa e mormorando qualcosa circa l’importo da pagare, che le sembrava evidentemente eccessivo per ciò che aveva comprato, chiese gentilmente di controllare se per caso non ci fosse stato qualche errore. La cassiera accondiscese di buon grado a rifare il conto, ma l’importo era giusto e quindi non potè far altro che confermarlo, e quasi si scusava per l’evidenza della cosa. La vecchietta allora ringraziò, pagò e senza aggiungere altro uscì dal negozio con la busta in mano.
Quando a mia volta uscii anch’io e vidi la donna mentre si allontanava lentamente sul marciapiede, mi sentii stringere il cuore e mi venne per un attimo la tentazione di raggiungerla e trovare il modo di offrirle io la spesa. Mi resi subito conto che era un’idea sciocca, che non era proprio il caso, la signora si sarebbe sentita sicuramente offesa e umiliata e io stesso mi sarei procurato solo un grandissimo imbarazzo. L’episodio servì però a farmi riflettere su come sia esile quella linea di demarcazione che ci fa comodo tracciare fra noi e gli altri, fra la vita di tutti i giorni di coloro che riescono a tenerla al riparo dal bisogno e dalla sofferenza e quella stentata di chi fa fatica a viverla.

Così, quando alcune sere fa è passata in televisione, fra le tante, troppe pubblicità stucchevoli, stupide e spesso volgari, quella di un’associazione onlus (http://www.forasmile.org/) che si propone di costruire in Congo un centro di accoglienza per le bambine di strada e invitava a donare due euro, ho pensato: “A me due euro non mi cambiano la vita, ma per una bambina di Kinshasa possono significare molto”.
E allora l’ho fatto. Per la prima volta nella mia vita ho compiuto un atto di solidarietà.

venerdì 23 luglio 2010

Jennie

Ci sono film destinati a imprimersi in modo indelebile nella nostra mente. E ciò indipendentemente dal successo che hanno riscosso, dalla loro notorietà, dai premi che hanno ricevuto o da quello che ne ha scritto la critica.


Non saprei dire perché “Il ritratto di Jennie” (Portrait of Jennie, USA, 1948) mi è così caro, perché nel tempo ha acquistato una connotazione così “mitica” per me, accanto ad altri film (non molti, a dire il vero) con caratteristiche ugualmente uniche, irripetibili, esclusive. C’è qualcosa in alcuni prodotti dell’ingegno umano (accade per un brano musicale, o per un componimento letterario, un dipinto o appunto un film) che li rende assoluti, con una dignità tutta particolare e la dimensione di un “mito”.
E’ merito della storia, del suo carattere così apertamente surreale? della suggestiva ambientazione in una fredda e brumosa New York? della splendida interpretazione di due grandi attori come Jennifer Jones e Joseph Cotten? dell’onirico accompagnamento musicale di Dimitri Tiomkin? Sì, certo, sono tutte ottime ragioni, ma c’è sicuramente dell’altro.


Il “logo” del film è tutto a mio parere in quel volto assorto e bellissimo che il pittore Robert Brackman ricalcò sui dolci lineamenti della protagonista, in quello sguardo triste e pensoso che sembra fissare un punto lontano, fuori del mondo reale e della portata degli sguardi umani.
Ecco, quello sguardo mi interessa, ne sono attratto, quasi ipnotizzato. Chi è Jennie? o forse dovrei dire che cosa è Jennie? è un fantasma del passato o un sogno diventato realtà? è un’illusione o un’aspirazione? perché se non esiste puoi toccarla? e perché svanisce pur sembrando vera?


Jennie è innanzitutto un luogo della mente. Là dove la luce e l’ombra sconfinano una nell’altra e i ricordi si mescolano alle aspirazioni, il dolore alla gioia e, forse, la vita alla morte. In quel punto critico in cui il nostro abituale modo di leggere le cose che ci circondano e il mondo mostra tutti i suoi limiti (e soprattutto la sua pochezza), in quella zona in penombra in cui alla mente si aprono nuovi orizzonti di fantasia, di desiderio, di rinascita, ecco, è lì che si trova Jennie. Tra presente e passato, rimpianto e voglia di vivere, speranza e incubo, questa immagine di donna fuori del tempo e pure così viva e sognante, così ingenua ed insieme volitiva, così giovane di spirito e però così matura e consapevole, è il simbolo di un sogno che vorremmo vedere realizzato e di una vita che vorremmo in qualche modo reinventare.


Amo Jennie. La sua immagine mi dà un senso di armonia che mi allarga il cuore e la mente. In lei ci sono i tratti di una femminilità non stereotipa, dove la bellezza e la sensualità non sono neanche sfiorati dalla volgarità. Tutto in lei esprime ricchezza e nobiltà di pensieri, sentimenti, vita.
C’è una forza, un equilibrio meraviglioso in questo dipinto che va oltre il soggetto raffigurato per cogliere un moto, un sussulto del nostro essere, quello di chi non sa o non può rassegnarsi alla realtà e insegue con tenacia l’incanto di un sogno ad occhi aperti.